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Pubblicati dalla Società Nissena di Storia Patria gli Atti del Convegno svoltosi a Monforte San Giorgio nel maggio 2014. 

 

 

il sottoscritto durante l'intervento al Convegno di Monforte S. Giorgio (ME)

                               

 

CESARE OTTAVIANO E L’IMPORTANZA DEL CONFLITTO SICILIANO DEL 39-36 a.C. di Piero Gazzara.

estratto da: Atti del Convegno di Studi Ricerche storiche e archeologiche nel Val Demone (Monforte S. Giorgio, 17 e 18 maggio 2014). Pubblicato da Società Nissena di Storia Patria a cura di Filippo Imbesi, Giuseppe Pantano e Luigi Santagati, (937.81 CDD-22 SBN Pal0274229 CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace"),  pp. 59-68.

 

       Nel 2014 ricorre un importante anniversario: il bimillenario della morte del primo Imperatore di Roma, Imperator Caesar Divi filius Augustus[1]  ossia, Gaio Ottaviano, avvenuta nell’anno 14 d.C..  Nipote del grande Cesare e, dopo le idi di marzo, suo erede testamentario,  Augusto, il consacrato, è ritenuto come l’iniziatore di un nuovo stile di potere che condusse l’Impero di Roma alla sua massima potenza e costituì un modello politico ispiratore anche nei secoli successivi, ben oltre i limiti temporali che segnarono la caduta del dominio militare di Roma.

 

       Nacque nel 63 a.C. da Azia maggiore, nipote di Giulio Cesare: una parentela  di peso che ebbe un ruolo non indifferente nella veloce affermazione politica del giovane rampollo della Gens Iulia. Ma questa da sola non bastò perché, dopo l’assassinio di Cesare, furono soprattutto le scelte operate da Ottaviano, talune propiziate da una buona dose di fortuna, a determinare gli eventi che lo condussero nel 23 a.C. a ricoprire alcune tra le più alte cariche ed onorificenze dello Stato, tra le quali quella dell’imperium proconsulare maius et infinitum[2] e la  tribunicia potestas. Eventi costellati da rovinose guerre interne, da complotti politici, da assassinii e da congiure oltre che da mosse diplomatiche astute e temerarie che gli storici[3] del tempo ci hanno tramandato nei loro Annali.

 

       Tra queste la cruenta guerra civile (Bellum Siculum) sostenuta negli anni 39[4]-36 a.C. contro Sesto Pompeo, rappresentò indubbiamente una tappa fondamentale ed asperrima negli anni cruciali della fulminea avanzata politica di Ottaviano nonostante gli storici moderni reputano in massima parte minimizzare, secondo noi a torto, l`importanza e i risvolti decisivi che ne scaturirono con la vittoriosa conclusione del conflitto siciliano. A partire dalla mutazione dello scenario politico d’influenza ottaviana sull’intera area mediterranea con l’inclusione delle due ricche e strategiche province di Sicilia e d’Africa. Infatti, il quadro generale dei rapporti di forza all’indomani del Bellum Siculum tra i due trimuviri superstiti, Ottaviano e Antonio, subì uno stravolgimento radicale, preparatorio allo scontro decisivo di Azio del 31 e, nel contempo, conferì ad Ottaviano le risorse economiche e militari, necessarie per opporsi apertamente ad Antonio e rialzò in modo significativo il livello di  auctoritas che si era di molto abbassato dopo i fatti di Perugia e la carestia dell’Urbe.

 

 

       Chi era Sesto Pompeo? Figlio minore di Gneo Pompeo Magno ed unico superstite di Munda, dopo la morte di Cesare, fu nominato dal Senato di Roma, comandante in capo della flotta romana (Praefectus Classis), carica che gli venne, dopo alcuni mesi, revocata su pressione di Ottaviano appena  rientrato nell’Urbe dopo il vittorioso scontro con i cesaricidi a Filippi. Il trimuvirato andò pesante con l’ultimo figlio di Gneo includendo l’ex ammiraglio nelle liste di proscrizioni (proscriptio), ossia, tra gli oppositori politici da eliminare. E Sesto rispose occupando nel 43 a.C. la Sicilia inalberando il vessillo delle libertà repubblicane calpestate dai Triumviri. Non solo. Fornì rifugio a quanti si opponevano alla dittatura del Triumvirato e furono molti, soprattutto senatori ed equites, i cui nomi figuravano nella lista di proscrizione, a raggiungere la Sicilia e a combattere al fianco dei pompeiani. Numerosissimi furono gli schiavi che da ogni parte dell’Italia Centrale e meridionale si rifugiarono in Sicilia ad ingrossare le file dell’armata navale e terrestre pompeiana. Nel quartier generale di Messina, Sesto passava le giornate a studiare le strategie più efficaci per eliminare, non solo politicamente ma anche fisicamente, Ottaviano. Nel suo intimo, Sesto era conscio di continuare una lotta spietata contro la gens Iulia, lasciatagli in eredità dal padre, e che questa volta doveva assolutamente vincere. Nonostante gran parte degli storici propende per un giudizio in massima parte negativo sull’ultimo figlio del grande Pompeo, additato ora come rissoso e truce, indaffarato a tracannare vino ogni oltre misura e ad atteggiarsi a figlio divino di Nettuno, non possiamo non cogliere, oltre la cortina denigratoria eretta ad arte da una certa trattatistica storica, quasi sempre dedita ad osannare l’aureola dei vincitori, una spiccata dote di stratega che, ancor prima dello scontro militare, cercò di costruire fattivamente le basi per una vittoria possibile. Per prima cosa mise in pratica l’insegnamento del padre: «qui mare teneat, eum necesse esse rerum potiri»[5] con il controllo delle rotte commerciali da e verso Roma utilizzando la Sicilia come un’immensa base navale, difesa da legioni ben motivate, anche se poche addestrate. Creò nella parte nord-orientale, tra Messina, Tindari e Taormina, un territorio potentemente fortificato ponendovi le basi del grosso delle sue forze terrestri e navali.

 

       Contro Messina, Ottaviano scagliò un imponente piano di invasione puntando direttamente su Messina. Ma la flotta capitanata dal Legato, Quinto Salvidieno Rufo, fu distrutta all’entrata dello Stretto, nei pressi del promontorio di Scilla in un’operazione congiunta tra il mare mosso e le navi di Pompeo. E qui, Sesto diede fondo alla sua vena di astuto stratega sfruttando uno dei maggiori strumenti di propaganda politica dell’antichità: la moneta. Sicuramente dopo questa vittoria navale, fu coniato un denario d’argento del tutto particolare, il cui messaggio ci appare di un’evidenza allarmante perché porta nei segni impressi sulle due facce una esplicita minaccia lanciata da Sesto, tra sarcasmo e derisione, ad Ottaviano e ai suoi sostenitori. Sul verso si trova l’effige mitologica di Scilla, rappresentata come un mostro marino che brandisce un timone mentre sul recto un dio con elmo, in atto bellicoso, con tridente e con il piede su una prua rostrata, il tutto poggiante su una colonna. Innanzi sta una nave da guerra, la navis praetoria[6] recante a prua l’insegna dell’aquila legionaria e a poppa un tridente con le insegne di ammiraglio. Il messaggio di Sesto è del tipo: Ottaviano sappi che sono protetto da una parte da Scilla e dall’altra da Nettuno (o Giove) ed entrambi distruggeranno qualsiasi tua flotta. Non venire in Sicilia.

 

 

Denario di Sesto Pompeo coniato in occasione della sua vittoria sulla flotta augustea capitanata da Quinto Rufo

 

 

 

       Ottaviano cercò allora di smorzare la minaccia con diplomazia addivenendo ad un accordo che coinvolgeva anche gli altri due colleghi del Triumvirato. Accordo sancito prima a Brindisi e, nel 39, a Miseno in base al quale veniva riconosciuto a Sesto il dominio sulla Sicilia, sulla Sardegna, sulla Corsica e sull`Achaia, oltre ad una indennità di settanta milioni di sesterzi come indennizzo per la confisca dei beni paterni. Tra gli accordi trovarono posto anche i cittadini romani proscritti che si erano rifugiati in Sicilia per evitare la morte: potevano rientrare liberamente a Roma, dove venivano loro restituiti i beni e gli averi confiscati. Da parte sua, Sesto si impegnava a rifornire Roma di grano. L’impatto positivo degli accordi sulla società romana fu enorme: un’altra guerra civile era stata scongiurata e la carestia era stata evitata. Nel sollievo generale, il poeta latino Virgilio compose la quarta egloga delle Bucoliche inneggiando alla nascita di una nuova era di pace e di sviluppo:

 

    «… guarda come tutte le cose si allietino per il secolo che sta per venire»[7].

 

       Ma fu un’illusione. Gli accordi non vennero mantenuti e di conseguenza Sesto passò alle vie di fatto attuando un blocco navale asfissiante che causò l’immediata interruzione di qualsiasi trasporto marittimo da e per Roma, dove la mancanza di grano, proveniente dall`Egitto, dall`Africa e soprattutto dalla Sicilia, causò una disastrosa carestia: Sesto «Sicilia praerepta commeatibusque inpeditis Romam fame adfecit[8]». Non passava giorno che le strade della città si riempivano di gente in protesta che accusava lo stesso Ottaviano di non essere all’altezza di risolvere la crisi. C`era chi spargeva la voce che occorreva richiamare  Antonio dall`oriente. Ottaviano, che nel frattempo, quale erede di Cesare, aveva aggiunto al suo nome il prenome di Imperator[9], reputò giunto il momento di passare all’azione senza indugio. Incaricò Mecenate di vegliare su Roma in sua assenza e si diresse assieme al suo ammiraglio, Vipsanio Agrippa, verso la Sicilia con una poderosa flotta e un buon numero di legioni. Nel contempo aveva chiesto a Lepido di invadere l’isola da sud con le proprie legioni di stanza in Africa settentrionale, in modo da spingere Sesto a ritirarsi in Messina, dove sarebbe stato accerchiato e quindi, costretto alla resa.

 

       Negli anni di incontrastato dominio, Sesto Pompeo aveva fortificato l'isola. Nel 36 a.C., l’armata navale ottaviana investì l'Arcipelago Eoliano di cui prese il controllo. Questa prima mossa fece intendere all'avversario che l'attacco sarebbe avvenuto sul lato nord del triangolo fortificato, quello tirrenico, tra Capo Peloro e Tindari. Viceversa, Ottaviano, lasciando il comando delle operazioni al suo fidato ammiraglio, ritornò in Calabria  e con il resto delle forze si preparò a salpare verso Sud con l’obiettivo di assaltare Taormina. Da parte sua, Agrippa iniziò le operazioni di guerra puntando su Milazzo, dove Pompeo aveva schierato a difesa ben 155 navi. Lo scontro che segui fu cruento. Le navi cesariane, più grandi, giocarono nelle sorti della battaglia un ruolo decisivo: la maggiore pesantezza inflisse danni considerevoli negli speronamenti alle più leggere navi pompeiane.

 

       Pompeo, che assisteva alla battaglia dalla terraferma, non appena vide che la nave del suo Ammiraglio, Papia era circondata ed assalita da più navi mentre un'altra squadra sopraggiungeva a vele spiegate a dar man forte ad Agrippa, ordinò la ritirata. Il ripiegamento avvenne sotto l'incalzare delle navi nemiche che impedirono a quelle di Sesto di porsi al sicuro nei porti. Ma riuscirono a scampare alla disfatta rifugiandosi tra i banchi di arenile formatesi in mare vicino alle coste e dove le grosse navi di Agrippa non potevano raggiungerle a causa dei bassi fondali. La battaglia navale di Milazzo si era conclusa senza risultati definitivi. Solo a tarda sera le navi di Agrippa rientrarono alle loro basi nelle Eolie, permettendo così alla  flotta avversaria di riparare nei porti[10].

 

       Mentre avveniva la ritirata delle navi di Sesto, Agrippa, pensando di avere in pugno la flotta nemica aveva, troppo avventatamente, inviato un dispaccio ad Ottaviano nel porto calabrese di Leucopetra per informarlo dell'ormai sicura vittoria. Il futuro Augusto, in pieno giorno e senza indugiare, prese il largo puntando la prua su Taormina. Giunto vi sbarcò le truppe di terra e, dopo aver ottenuto il rifiuto della guarnigione romana, fedele a Pompeo, di consegnare Taormina, decise di porre l'assedio all’importante snodo portuale e militare dello schieramento avversario. Il suo attraversamento dalle coste calabre a Taormina, avvenuto in pieno giorno, non era passato inosservato alle vedette nemiche poste sulle cime dei monti peloritani. Informato delle mosse del nemico, Sesto, dopo aver lasciato un buon numero di navi a difesa di Milazzo, salpò di nascosto con il grosso della flotta e, doppiando Capo Peloro, piombò sulle acque di Taormina, mentre da terra vi faceva sopraggiungere le proprie legioni. Lo scoramento di Ottaviano alla vista delle schiere avversarie fu enorme: era circondato da forze nemiche ben superiori alle sue sia dalla parte del mare che da terra. Con sé aveva appena tre legioni, cinquecento cavalieri senza cavalli, mille soldati leggieri, duemila coloni volontari, oltre alle navi da battaglia. Non disponendo di alternative, lasciò il comando delle forze di terra al suo luogotenente, Cornificio con l'ordine di mantenere il più possibile le posizioni e si imbarcò deciso a spezzare l’accerchiamento sul mare e riguadagnare le sicure sponde continentali.

 

       Lo scontro tra le due flotte avvenne al largo. Questa volta la vittoria arrise a Sesto Pompeo che distrusse la quasi totalità delle navi avversarie. E qui il futuro primo Imperatore di Roma rischiò la vita e anche quello di vedere modificato il corso della Storia. Persa la propria nave nella battaglia, Ottaviano si ritrovò su una piccola barca con un marinaio[11] scampato anch’egli all’affondamento della propria nave. Vagarono tutta la notte per le acque dello stretto mentre le unità nemiche imperversavano alla ricerca di superstiti da far prigionieri o da sopprimere. Alle prime luci dell’alba i due naufraghi tirarono un sospiro di sollievo: la fortuna era stata dalla loro parte. Le correnti marine li avevano spinti verso la sponda calabrese, nei pressi del porto amico di Abala. Qui, dopo essere stato riconosciuto e rifocillato, Ottaviano raggiunse non senza problemi la base navale di Leucapetra deciso più che mai a chiudere definitivamente la partita mortale con Sesto Pompeo.

 

       In altre occasioni della breve ma sanguinosa guerra siciliana, Ottaviano fu sul punto di finire nelle mani di Pompeo il quale non aveva fatto misteri di voler uccidere l’erede dell’odiato Cesare con le sue stesse mani. «E’ certo che non vi furono altre guerre nelle quali (Augusto) corse pericoli più grandi», così si esprimeva lo storico Svetonio riferendosi alla guerra siciliana. Narra lo stesso storico che un giorno, mentre si trovava vicino alla spiaggia, Ottaviano vide delle navi avvicinarsi alla riva e senza consultare nessuno reputò essere amiche e di corsa si avvicinò alla spiaggia per riceverle. Ma non era così: le navi erano di Pompeo e fu solo un caso che riuscì a fuggire allontanandosi di corsa dalla spiaggia. In un’altra occasione sfuggì ad un attentato ordito da uno schiavo che voleva vendicarsi per le liste di proscrizione.[12]

 

       Intanto, sotto le mura di Taormina, Pompeo aveva circondato il campo avversario con trincee con l'intento di prendere per fame le legioni cesariane. A nulla valsero i tentativi di Cornificio per rompere l'accerchiamento. Infine decise di togliersi da quella posizione ripiegando verso l’unica via rimastagli: l'interno dell'isola. Così, quello che restava delle tre legioni di Ottaviano formò una lunga colonna di cui facevano parte molti superstiti marinai della flotta scampati alla morte e si inerpicò per le scoscese vallate dell'Etna con l'intento di raggiungere  la costa tirrenica. I superstiti in ritirata erano attaccati continuamente da piccole formazioni nemiche che dopo aver colpito si disimpegnavano velocemente sparendo tra gli anfratti montagnosi o negli immensi boschi. La lunga fila di legionari, sperduti e demoralizzati, si assottigliava sempre più, ma alla fine Cornificio e i suoi furono raggiunti dagli aiuti inviati da Agrippa che nel frattempo era riuscito a conquistare la città e il porto di Tindari, dove lo raggiunse anche il ristabilito Ottaviano con altre forze fresche. Il dispositivo d'invasione era al completo. Ottaviano poteva contare su una preponderante forza terrestre di ventuno legioni di fanteria (circa 121.000 soldati  circa), ventimila cavalieri e più di cinquemila soldati leggeri (dati forniti dallo storico greco Appiano Alessandrino, vissuto nel I sec. d.C.).  Da parte sua, Pompeo doveva contrapporre più o meno lo stesso numero di soldati trincerati saldamente su posizioni dominanti e fortissime che rendevano arduo e difficile l'avanzata di Ottaviano nella Piana di Milazzo. Infatti, le truppe pompeiane  controllavano Milazzo e tutto il territorio che da questa andava al porto di Nauloco e da qui a Capo Rasocolmo con tutta la spiaggia fortificata. Ad oggi, la città[13] portuale di Nauloco è stata oggetto di una vasta letteratura protesa ad illustrare singoli probabili siti localizzati in diversi punti del versante tirrenico messinese: a Venetico Marina, in contrada Bagni[14]; ad Acqualadroni, dove nelle acque prospicienti, nel 2008, è stato recuperato un rostro, troppo sbrigativamente ritenuto appartenere a una nave impegnata nella battaglia di Nauloco[15]; tra Pace e S. Filippo del Mela[16]; nel golfo di Patti[17]; a Divieto di Villafranca Tirrena oppure presso la foce del torrente Saponara[18];  solo per citare alcuni dei siti proposti.

 

       Le legioni di Ottaviano marciavano lentamente scendendo da Tindari mentre gli avversari indietreggiavano combattendo con azioni di disturbo e senza mai impegnarsi a fondo in una vera e propria battaglia campale. Tutto questo sino in prossimità  di Milazzo dove Pompeo fermò compatte le proprie legioni in formazione da battaglia.

 

       Agrippa a questo punto adottò uno stratagemma per indurre l'avversario a dividere le sue forze. Con una mossa diversiva fece salpare la flotta dalle Eolie in pieno giorno facendo chiaramente intuire di puntare verso Capo Peloro,  dove avrebbe effettuato un probabile sbarco alle spalle delle linee nemiche aggirandole. Il diversivo sortì i suoi effetti. Pompeo rispose lasciando parte delle sue legioni a presidiare la linea del fronte e, con il grosso del proprio esercito, si diresse speditamente verso capo Peloro per impedire lo sbarco. Una volta giuntovi si accorse che la flotta nemica rimaneva al largo e non aveva nessuna intenzione di avvicinarsi a riva. Quando capì che si trattava di un tranello, era troppo tardi per tornare indietro.

 

       Le legioni ottaviane avevano già sferrato l'attacco alle posizioni nemiche sulla piana  conquistando Milazzo e il piccolo villaggio, Artemisio. Luogo quest’ultimo che è entrato da protagonista in una vasta produzione di scritti, dal XVI sec. ad oggi, tesi ad individuare il sito, nei cui pressi, la leggenda riportata da Appiano e da altri autori antichi, diceva che vi pascolassero gli armenti, bovini ed ovini sacri al Sole e dove Ulisse si addormentò mentre i suoi compagni uccisero alcuni degli animali sacri per cibarsi[19]. Molti autori moderni individuano l’Artemisio con il Tempio di Diana[20], venerata con l’eponimo sacro di Facellina, dove lo stesso Ottaviano, alla vigilia dello scontro decisivo, sarebbe andato a pregare per propiziarsi la benevolenza della dea per le sorti dell’imminente battaglia decisiva.

 

       La perdita di Milazzo aveva messo Pompeo in una situazione pericolosa ed a peggiorarla, nel frattempo, le legioni di Lepido stavano per congiungersi con quelli di Ottaviano mentre intorno a Messina e alla base navale di Nauloco, posta ad est del promontorio di Milazzo, gli avversari facevano terra bruciata e conquistavano, una dopo l'altra, le città siciliane alleate di Sesto e dalle quali questo riceveva i rifornimenti alimentari.  Da questa posizione scomoda, il figlio del grande Pompeo lanciò la sua ultima sfida: era pronto a misurarsi con i suoi avversari sul mare. Ottaviano accettò.

 

 

       Nel giorno stabilito, il 3 settembre del 36 a.C., (anno 718 di Roma), trecento navi dall'una e dall'altra parte si prepararono allo scontro decisivo proprio davanti alle coste siciliane, schierate in linea tra Capo Peloro e Stromboli quelle di Pompeo, e di fronte, tra Lipari e Milazzo, quelle di Agrippa. Le legioni di entrambi i contendenti assistettero alla battaglia navale dall'alto delle colline, da dove con grida incitavano i rispettivi marinai.

 

       Le possenti navi di Agrippa sovrastavano per dimensione e stazza quelle di Sesto Pompeo che puntava proprio su questa presunta inferiorità per sconfiggere l’avversario: anche se più piccole le sue agili navi potevano contare su una maggiore velocità e manovrabilità, utili per causare maggiori danni alle più pesanti navi nemiche. Ma ciò non accadde perché l’astuto Agrippa adottò per la prima volta sulle proprie navi un'arma decisiva, l'arpax: un uncino di ferro posto su una lunga asta ferrata che, lanciata da bordo della nave con l'ausilio di una catapulta, arpionava lo scafo nemico. Con l'ausilio di corde, i marinai di Agrippa potevano tirare a sè la nave nemica per abbordarla o speronarla con facilità.  Così fu. La battaglia navale di Nauloco, combattuta tra romani, decretò la vittoria di Ottaviano. Solo diciassette navi riuscirono a scampare alla distruzione e, con a bordo un avvilito Sesto Pompeo, si diedero alla fuga abbandonando Messina e le truppe di terra al proprio destino. Ottaviano accolse nel proprio esercito i legionari dello sconfitto che, grati per la clemenza dimostrata nei loro riguardi,  gli giurarono fedeltà.  La vittoria era completa.

 

 

Ricostruzione cinematografica di battaglia navale tra Romani e pirati.

 

 

       Immediatamente nei giorni successivi alla fuga di Pompeo, il triumviro Lepido, le cui legioni avevano gravemente saccheggiato Messina suscitando l’ira di Ottaviano, chiese incautamente a questo di lasciare la Sicilia con le sue legioni poiché l’isola toccava alla sua sfera d’influenza. Ma Ottaviano, corrompendo con monete suonante gli ufficiali di Lepido[21], «disarmato e ravvolto nel suo mantello, nulla seco recando che il proprio nome[22]»  entrò nell’accampamento del suo collega triumviro e i legionari passarono a lui in massa. Lepido, rimasto solo, implorò grazia e gli fu magnanimamente consentito di conservare i propri averi e la carica di Pontifex Maximus, ma dovette lasciare la vita politica per uno sperduto paesino del Lazio, dove passò serenamente gli ultimi anni della sua vita terrena. A Messina, Augusto raccolse gli allori della vittoria assoluta: era diventato l'unico padrone di Roma e della parte occidentale dei domini romani, compresa la fertilissima e ricca provincia Africana. A sbarrargli la strada verso il potere rimaneva, adesso, l'altro triumviro, Marco Antonio, che se ne stava tranquillo e sereno sguazzando tra il lusso e l'alcova della regina d'Egitto, Cleopatra.

  

       Svetonio  così scrisse della guerra civile[23] contro Sesto Pompeo:

 

«la guerra di Sicilia fu da Ottaviano Augusto, trascinata in lungo… alla fine quando ebbe fatto costruire una nuova flotta, liberò ventimila schiavi per trasformarli in rematori, inaugurò il porto di Giulio, facendo penetrare il mare nei laghi Lucrino e Averno. Qui per tutto l'inverno esercitò le sue truppe, poi sconfisse (Sesto) Pompeo tra Milazzo e Naulochos. Verso l'ora del combattimento fu preso da un colpo di sonno così profondo che i suoi amici faticarono non poco a svegliarlo perché desse il segnale d'attacco. E' certo che non vi furono altre guerre nelle quali corse pericoli più grandi. Marco Antonio aveva tutte le ragioni di rimproverarlo dicendogli di non aver neanche avuto il coraggio di guardare in faccia una flotta schierata a battaglia, ma di essere rimasto, pieno di stupore, steso sul dorso, con gli occhi rivolti al cielo, e di non essersi alzato per presentarsi ai soldati se non quando M. Agrippa aveva già messo in fuga  le navi nemiche...».

 

       E così Appiano Alessandrino:

 

«Avvicinatesi le navi, si combatteva per ogni modo, e gli uni saltavano addosso agli altri; talchè non era più facile distinguere l'amico dal nemico; usando quasi tutti armi e lingua simili, cioè quelle dei Latini......Ma il mare intanto si riempiva di armi, di sangue e di corpi....Le milizie di terra portavano i loro sguardi pieni di ansia e di timore sul mare, perchè in mare si fondava la loro speranza di salvezza. Da lì potevano vedere la fine della battaglia per essere seicento navi schierate in lunghissimi ordini e per l'enorme e spaventoso muggito di gemiti proveniente ora dall'una ora dall'altra parte». 

    

       Per la vittoria di Nauloco, a Marco Vipsanio Agrippa, vero artefice della vittoria siciliana e sapiente organizzatore oltre che stratega della flotta ottaviana, fu conferita dal Senato la corona navalis o rostrata[24]. Lo avevano preceduto soltanto due condottieri romani: Caio Attilio Regolo e Marco Terenzio Varrone. Il conferimento della corona navale ad Agrippa, considerato come uno dei più grandi ammiragli romani, darà d’ora in poi, più lustro a questa onorificenza militare[25]. Per Nauloco all’abile ammiraglio fu concesso anche il vessillo azzurro[26]: insegna di comando ancora oggi in uso dalla Marina Militare Italiana quale distintivo del comandante superiore in mare e, ornate di stelle, degli ammiragli con alte funzioni di comando.

 

 

      

       E gli onori ad Ottaviano? Al giovane “vincitore” furono tributati onori eccezionali tra accoglienze di delirante tripudio popolare. Il Senato decretò un’ovazione e solenni feste in suo onore, oltre ad una statua dorata[27] che fu collocata nel Foro, su una colonna, adornata dai rostri delle navi vinte, detta rostrata, innalzata in memoria della vittoria di Nauloco con il titolo: «pace, post diuturnas turbas, terra marique restituita[28]». Altre due colonne, sempre nel Foro Romano, furono dedicate allo stesso Augusto e a Marco Agrippa[29]. E’ probabile che in questa occasione fu trasferita dalla Grecia a Roma la splendida statua in marmo di Athena Nike alata, simbolo ellenistico per celebrare le vittorie militari[30].

 

       Un arco trionfale venne innalzato nel Foro, tra il Tempio dei fratelli, Castore e Polluce, e il Tempio del Divo Giulio. Gli furono concessi diversi privilegi di tipo cerimoniale, quali il posto frontale a teatro, il diritto di entrare in città a cavallo, una corona di alloro da portare in ogni occasione, un banchetto annuale di vittoria nel tempio di Giove Capitolino. Anche varie emissioni di monete commemorative per la vittoria su Sesto Pompeo furono negli anni successivi un segno tangibile di come Augusto e i suoi contemporanei considerassero l’importanza della vittoria a Nauloco. Su un denario, emesso prima del 29, si trova inciso un trofeo che si erge sulla prua di una nave rostrata corredata da altri spolia navalia, riproduzione di un monumento dedicato alla vittoria augustea sul figlio di Pompeo[31]. Ed ancora, su un’altra moneta[32], Ottaviano fece incidere l’effige di Artemide, considerata l’artefice celeste della vittoria conseguita a Nauloco. Ed è proprio alla Dea vergine che Augusto riserverà sempre un’alta considerazione. Ma gli allori più importanti furono militari: Ottaviano si trovava a capo di una forza navale e terreste grandiosa. Poteva contare su 45 legioni (circa 200.000 uomini) e 600 navi ben equipaggiate. E cosa, ben più importante, poteva disporre di notevoli risorse che gli permettevano di poter sostenere agevolmente operazioni militari in qualsiasi parte dei vasti domini di Roma. Sfruttò, con arguzia e spregiudicatezza, fino in fondo, da perfetto stratega del potere, la macchina propagandistica della vittoria di Nauloco.

 

       E il colpo magistrale della campagna di autocelebrazione, Ottaviano lo assestò con la costruzione di una nuova residenza[33] che si fece edificare sul colle Palatino con il contributo finanziario delle casse pubbliche. Tra i numerosi privilegi accordatigli dal Senato e dal Popolo Romano c’era la costruzione di una casa sul terreno, precedentemente acquistato dallo stesso Ottaviano. Stabilendo la sua dimora sul Palatino, l’erede di Cesare trasformò il luogo più sacro di Roma nel nuovo centro politico-religioso dell’Impero. Da allora, quasi tutti gli imperatori manterranno la sede sul colle[34] sotto il quale si trovava la grotta (Lupercale), ove la lupa aveva allattato i due fatali gemelli, Romolo e Remo e sulla sommità del quale prima di Augusto aveva dimorato lo stesso fondatore dell’Urbe, Romolo (Casa Romuli). A poca distanza, sorse anche il Tempio di Apollo, la cui costruzione fu iniziata al rientro dalla Sicilia: all’interno dell’area sacra furono poste le statue di Apollo, Latona e Diana. Onori, privilegi e capo di una forza militare impressionante, Gaio Giulio Cesare Ottaviano, con la vittoria di Nauloco, divenne di fatto il “protettore” unico della res publica romana: da ora in avanti, tutte le deliberazioni del Senato, oltre a qualsiasi altra decisione di Stato, dovevano preventivamente misurarsi con gli umori del giovane erede di Cesare. 


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[1] Il 16 gennaio del 27 a.C. il senato romano conferì a Ottaviano il titolo di Augustus, il cui nome ufficiale fu da quel momento Imperator caesar Divi filius Augustus.

[2] L’Imperium del 27 a.C. fu conferito ad Ottaviano per un periodo iniziale di dieci anni pur non ricoprendo la carica di Proconsole e solo dal 23 l’Imperium proconsolare divenne perpetuo, ossia prorogato a vita (Cfr. F. Serrao, Il modello di costituzione, Torino 1990).

[3] Tra i quali ricordiamo: Appiano di Alessandria, Storia dei Romani, Lib. V, Amsterdam 1670; Svetonio, Vita dei Cesari, Milano 1982, Lib. II, 16, p. 64.

[4] In realtà la disputa mortale tra Ottaviano e Sesto Pompeo iniziò con l’inclusione di quest’ultimo nella lunga lista di oppositori da eliminare e con l’occupazione armata della Sicilia del 43 a.C.

[5] Cicerone, Lettere ad Attico, Lib. X, 8, 4, lettera del 2 maggio 49 a.C, vers. di C. Vitali, Bologna 1960: Cicerone spiegava ad Attico la superiorità delle forze pompeiane nelle prime fasi della guerra civile contro Cesare, attribuendole allo stesso Pompeo Magno: «chi è padrone del mare diviene padrone di tutto».

[6] J. Vaillant, Nummi antiqui familiarum romanarum perpetuis interpretationibus illustrati, Amstelaedami 1703, Vol. 2, p. 702.

[7] P. Virgilii Maronis, Bucolica, Ex Cod. Mediceo-Laurentiano, Roma 1763, Ecloga IV, v.17: «Sicelides Musae, paulo maiora canamus: non omnes arbusta iuvant humilesque myricae; si canimus silvas, silvae sint consule dignae. Ultima Cumaei venit iam carminis aetas; magnus ab integro saeclorum nascitur ordo; iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna; iam nova progenies caelo demittitur alto. Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum desinet ac toto surget gens aurea mundo, casta, fave, Lucina; tuus iam regnat Apollo.saeculi novi interpretatio»; cfr. Virgilio, Bucoliche, Rizzoli, 1983, introd. di A. La Penna, pag. 50: «L’ecloga IV nacque  nel clima di serenità e di speranze prodotto dalla pace di Brindisi nell’autunno del 40. Non c’è dubbio, però, che il suo significato va molto al di là della circostanza contingente (e ciò spiega la grande fortuna che ebbe nel cristianesimo): essa dà espressione (che però quasi solo nell’esordio e nella chiusa è vigorosamente poetica) a speranze di palingenesi molto diffuse nell’impero, specialmente fra i popoli orientali, che da tempo subivano il dominio rapace di Roma; nelle sofferenze delle guerre civili le attese e le speranze della nuova èra miracolosa di pace si erano fatte più vive. La connessione dell’ecloga IV, attraverso un oracolo sibillino, con profezie messianiche orientali (anche se è difficile precisare quali) si può ritenere sicura: in questo senso anche l’interpretazione cristiana contiene qualche cosa di vero».

[8] P. Orosii, Adversus paganos historiarum, Lib. VI, Cap. XVIII, p. 526, Colonia 1579 (trad:  e impedito (Sesto Pompeo) il mercato che veniva dalla Sicilia fece carestia a Roma).

[9] Dione Cassio, De fatti dei Romani dalla guerra…, Lib.XLVIII- XLIX , Venezia 1567: (Cfr. A. Piganiol, Le conquiste dei Romani, Milano 1979).

[10] Appiano, Op. cit. Lib V, p. 1160: Pompeiani portus suos petierunt...

[11] Appiano, op. cit. Lib. V, p. 1162.

[12] svetonio, op. cit.,  p.64.

[13] S. Italico, Le guerre puniche,  Milano 2004, p.807.

[14] C. La Farina, Congettura intorno al sito dell’antica Nauloco, in Bollettino dell’I.C.A., Roma 1856.

[15] La datazione mediante analisi del carbonio-14 ha rivelato che il rostro apparteneva ad un’imbarcazione affondata nel 260 a.C.: il teatro dello scontro fu la battaglia di Milazzo, agli inizi della prima guerra punica da: P. Frank, F. Caruso e E. Caponetti,  Ancient Wood of the Acqualadrone Rostrum: Materials History through Gas Chromatography/Mass Spectrometry and Sulfur X-ray Absorption Spectroscopy Università di Palermo in collaborazione con l’Università di Standford in Analytical Chemistry Rev., 2012, 84, pp. 4419-4428.

[16] G. Parisi, Alla ricerca di Diana Facellina, S.Lucia del Mela 1973.

[17] N. Lo Iacono, Nauloco e Diana Facellina, Messina 1997.

[18] F. Ioli, Il mistero di Artemisio e del Tempio di Diana, Torino 1991, p. 54. Per una maggiore conoscenza sull’argomento Vedi C. Saporetti, Diana Facellina, un mistero siciliano, Patti 2008.

 

[19] Omero, Odissea, lib. XII, v.261-376; Timeo di Taormina, Storia  di Sicilia; Appiano Alessandrino, De Bellis op. cit.,  Lib. V - v. CXVI.

[20] Non è conosciuto il luogo ove sorgesse il Tempio dedicato ad Artemide ed anche qui, esistono numerosi luoghi suggeriti da una prolifera letteratura, quali, Castroreale, S.Lucia del Mela, Milazzo, a Monforte sulle sponde del Niceto, a Rometta, nei pressi di Capo Peloro ed in altri luoghi. Vedi C. Saporetti, op. cit..

[21] Appiano, Guerre civili, Lib. V, cc CXXIV;

[22] G. Velleio Patercolo, Istoria Romana, Milano 1826, Lib. II, 79, p. 153;

[23] Svetonio, op. cit., 16, p. 64

[24] La corona rostrata era d’oro ed ornata con la riproduzione di rostri (speroni di bronzo fissati sulla prora delle navi da guerra).

[25] L. A. Senecae , De Clementia, Parigi 1827, Lib. I, Cap. XI, p. 219.

[26] Svetonio, De Vita Duodecim Caesarum, Ms.1500, p. 29: “M. Agrippam in Sicilia post navalem victoriam caeruleo vexillo donavit”..

[27] Appiano, Bell.Civ. V 130, p. 542.

[28] Trad. :”Ha restaurato la pace, per  molto tempo turbata dalle discordie, per terra e per mare”.

[29] M. H. Servius, Commentarius in Georgica,1470, 2 29; recentemente vedi D.Palombi, Columnae rostratae Augusti, 1993, pag.321.

[30] Archeologia Viva Riv. n. 159 maggio-giugno 2013, pp. 4-5

[31] H. Cohen, Description Historique des monnaies, Paris 1880, p. 81, n. 118.

[32] Per ricordare le vittorie riportate nelle varie battaglie, Augusto emise delle monete una per ogni vittoria con l’effige della divinità alla quale si era rivolto prima della battaglia per riceverne gli auspici, così, Apollo per la battaglia vinta ad Azio e Diana (con la scritta IMP X SICIL) per quella vinta in Sicilia.

[33] G. Velleio Patercolo, op. cit., 2,81

[34] Dal nome del colle, il Palatino, la residenza imperiale assunse la denominazione di Palatium, donde il nostro "palazzo". Le fonti contemporanee chiamavano la casa di Augusto aedes, domus, Palatina domus, ma in seguito si sarebbe diffuso l'uso del termine "palatium".

 

 


 

 

 

 

 

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