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Pubblicati dalla Rivista di Studi Medievali, "Mediaeval Sophia" gli Atti del Convegno tenutosi nel magnifico castello federiciano di Montalbano Elicona nel settembre 2012. 

 

 

Rometta  (maggio del 965) e Taormina (dicembre del 962): gli ultimi due centri di resistenza bizantina.   

                                                                                                                                                                                         

 

L’area nord-orientale della Sicilia tra gli anni 902 e 965: vecchie e nuove questioni storiografiche insolute di Piero Gazzara.

(estratto da: Atti del I Convegno Ricerche storiche nella zona tirrenica della Pronvincia di Messina. Dal Neolitico alla fine del feudalesimo  (Montalbano Elicona, 7-8 settembre 2012), in «Mediaeval Sophia» 14, pp. 231-240.

 

 

Discorrendo sulla fine dell’autorità politica e militare dell’Impero romano d’Oriente sulla Sicilia è facile imbattersi in due scuole interpretative diverse che fondano entrambe le loro tesi  sulla conquista musulmana di due centri urbani della Sicilia orientale. Una parte degli storici è propensa ad indicare come fine dell’esperienza siciliana di Bisanzio il 902,[1] anno della cruenta conquista di Taormina, mentre altri spostano tale termine sessantatre anni dopo, facendola coincidere con la sanguinosa espugnazione della roccaforte peloritana di Erymata o Rémata (oggi Rometta) avvenuta nel maggio del 965.[2] Mentre un’altra data, quella dell’878, coincidente con la presa musulmana di Siracusa, è rimasta e rimane tutt’oggi  accettata e condivisa da più parti come data utile solo a scopo didattico per indicare la fine del dominio bizantino sull’Isola.[3] Siracusa in quanto ritenuta la città che ha esercitato da sempre una sorta di supremazia politica e culturale sulla Magna Grecia prima, e nella provincia romana dopo, oltre ad essere stata la sede imperiale (dal 663 al  668).  Ma, stando agli avvenimenti che si susseguirono dalla presa di Siracusa e sino alla prima metà dell’anno mille, l’Impero di Bisanzio, in realtà non smise di interessarsi della Sicilia ma investì ingenti risorse militari ed economiche per riprendersi il controllo dell’Isola.  Infatti,  lo scontro  tra Bisanzio e gli Arabi per la Sicilia, ovvero per la supremazia marittima nel Mediterraneo centrale, continuò nel tempo ben oltre la perdita della città aretusea[4]

Come vedremo più avanti, cercare di schematizzare la storia in date ed eventi, seppur a volte risulti necessaria per individuare un ideale spartiacque, una linea virtuale di demarcazione,  può assumere connotazioni riduttive  soprattutto in una ricerca storica dove, si può correre il rischio di affossare e impedire il cammino ad altre ricerche che potrebbero arricchire la comprensione di un evento o di una dinamica storica, come, di converso, potrebbe ridurne l’importanza fino ad allora affermata. Negli ultimi trent'anni molte prospettive e numerosi dati storici sono stati messi in discussione dai progressi avvenuti in campo archeologico, epigrafico, numismatico ed archivistico determinando la continua evoluzione delle nostre conoscenze in campo storiografico.

Perché era importante la Sicilia per l’Impero romano d’Oriente?  

Le motivazioni che spinsero gli strateghi di Bisanzio a conquistare l’antica provincia romana di Sicilia erano pressoché le stesse sia per la renovatio imperii di Giustiniano che per le successive azioni militari quali quella organizzata da Niceforo II del 964 o per la leggendaria impresa di Giorgio Maniace del 1038. Indiscusse le ragioni di prestigio politico, ma le esigenze economiche di riaprire le rotte marittime occidentali, cioè verso i mercati agricoli dell’Africa settentrionale,  della Sicilia e verso quelli minerari della Sardegna e della Spagna, giocarono un ruolo fondamentale nello spingere gli strateghi giustinianei a pianificare la riconquista degli antichi territori occidentali di cui gli imperatori di Costantinopoli si ritenevano i legittimi successori.

 La Sicilia era stata da sempre una fonte inesauribile di grano. Nel Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, conosciuto come «Cronaca episcopale ravennate di Andrea  detto Agnello Ravennate», vissuto tra 800-850 d.C., è riportato un documento della seconda metà del VII secolo della chiesa ravennate in cui un diacono di nome Benedetto, Rector  delle proprietà della Chiesa in Sicilia, ritorna a Ravenna con diverse navi cariche di grano siciliano, oltre 50.000 modii e alia legumena et aristae assieme a vasi d’argento e di oricalco e ben 31.000 solidi aurei: queste quantità di merce preziosa lasciavano periodicamente la Sicilia ogni anno.[5] Nel 546, in piena guerra gotica, Papa Virgilio rifugiatosi in Sicilia organizzò un eccezionale convoglio navale, carico di grano siciliano e di altre vettovaglie che spedì da Catania a Roma, assediata ed affamata dai Goti.[6] Frumento, olio, vino e altri prodotti agricoli erano la ricchezza dell’Isola. E per poter sfruttare queste risorse l’Impero bizantino lanciò una massiccia offensiva militare verso l’Occidente conquistando la fertilissima provincia d’Africa eliminando per sempre dal Mediterraneo le scorrerie della flotta dei Vandali (534); poi toccò alla Sicilia (535) e all’Italia, strappate ai Goti dell’est, ed infine al sud della penisola iberica, tolto dalle mani dei Visigoti.

L’attacco ai regni romano barbarici d’Occidente non solo mise in evidenza la perfetta macchina da guerra bizantina che poggiava su un esercito addestrato e notevolmente riformato con tecniche da guerra innovative, ma fece emergere in modo impressionante l’assenza di un efficace sistema di difesa territoriale della Sicilia. Solo Siracusa, Palermo, Messina e Lilibeo potevano contare su un sistema fortificato a difesa del proprio centro abitato. D’altra parte, cinque secoli di pax romana, dalla sconfitta dei pirati da parte di Pompeo Magno, nel 67 a.C., alla conquista di Cartagine da parte dei Vandali nel 439 d.C., avevano costituito il più lungo intervallo di tranquillità nell’area del Mediterraneo. Celebrata solennemente da Augusto con la vittoria della campagna di Sicilia del 36 a.C. «[…] mare pacavi a praedonibus»,[7]  la “pace romana”  aveva agevolato lo sviluppo urbanistico sulle coste siciliane, in particolar modo quella settentrionale dove, numerosi centri urbani piccoli e medi, quali Haelesa, Mylae, Tyndaris e Haluntium per citarne alcuni, prosperarono per il commercio poiché i loro porti erano toccati dall’affollata rotta  seguita dalle navi annonarie e mercantili da cabotaggio che quotidianamente trasportavano le mercanzie dalla ricca e fertile provincia dell’Africa a Roma.

Ma la restaurazione territoriale voluta da Giustiniano ben presto subì un arretramento fatale. Ad appena sedici anni gran parte delle conquiste del nord della penisola italiana furono minacciate dai Longobardi che, dal 568 al 751, riuscirono a limitare notevolmente le imprese dei generali Belisario e Narsete, mentre i Visigoti in poco meno di due decenni rigettarono in mare i bizantini dalla penisola iberica. L’Africa del nord fu fagocitata dal veloce ed inarrestabile espansionismo islamico del VII secolo. Solo la Sicilia e una parte dell’Italia meridionale rimasero ancorate più a lungo a Costantinopoli.

All’indomani della conquista giustinianea l’Isola iniziava ad assumere una funzione di ridotto militare, quasi un baluardo estremo, dal quale l’Impero d’Oriente non intendeva assolutamente ritirarsi. E la necessità di mettere in sicurezza la Sicilia con opportune misure di difesa, con molta probabilità, dovette farsi largo nelle menti degli strateghi bizantini in piena guerra gotica,  soprattutto quando Totila,  re dei Goti, nel 550  invase e saccheggiò una parte della Sicilia. Organizzare le difese e disporre il territorio ad un nuovo e profondo assetto urbanistico significava trasformare l’Isola in una base militare dai cui porti la flotta imperiale poteva intervenire tempestivamente su qualunque scenario di guerra nel Mediterraneo occidentale e centrale. L’importanza strategica ancorché economica era stata sancita dallo stesso Giustiniano nel 537 con la Novella 75: «[…] semper Sicilia quasi peculiare aliquid commodum imperatoribus accessit».[8]

Ad appena cento anni dalla riconquista siciliana l’impero bizantino assistette al sorgere della marina musulmana che operando, in questa prima fase dai porti della Siria, tagliò le rotte del Mediterraneo, già messe in pericolo dai pirati slavi. Il cuore stesso dell’Impero sperimentò la gravità del pericolo arabo nel 674 con un blocco navale musulmano, durato quattro anni, davanti alla stessa Costantinopoli. In Sicilia la minaccia musulmana o saracena  si era materializza potentemente solo alcuni anni prima, nel 669, a Siracusa  con una poderosa flotta proveniente dall’Egitto e con il primo saccheggio subito dalla città dove gli abitanti furono costretti a cercare rifugio « per munitissima castra et iuga confugerant montium », come ci ricorda Paolo Diacono[9] e anche un breve inciso del Liber Pontificalis.[10] Parlando di questo primo affaccio sullo scenario siciliano dei saraceni, così Michele Amari riporta:

 

Vennero d'Alessandria su dugento navi, condotti da Abd-Allah-ibn-Kais  irruppero in Siracusa con molta strage; se non che i cittadini rifuggivansi nelle montagne e nelle più munite rôcche dell'isola. Dopo un mese, fatto gran cumulo di preda, prese varie terre o piuttosto battuto il paese  qua e là coi cavalli i Musulmani si rimbarcarono. Portaron via, dicono gli scrittori cristiani, i tesori delle chiese e i bronzi rubati da Costante a Roma. Dicono i Musulmani che si trovò nel bottino gran copia d'idoli fabbricati di preziosi metalli e di gemme: e che il Califfo  li mandò ai mercati degli idolatri d'India, sperando che ne conoscessero e pagassero il pregio.[11]

 

Fu anche per questa ragione che sotto l’impero di Giustiniano II (685-695), l’Isola fu costituita in Thema (le antiche provincie romane),  dotandola di un sistema amministrativo, economico e, soprattutto, militare in maniera tale da poter sostenere qualsiasi minaccia esterna ed interna oltre  a mantenere  un soffocante regime fiscale che provvedeva a  drenare risorse verso Costantinopoli. A partire dall’VIII secolo le scorrerie musulmane, partendo dalle coste africane e spagnole islamizzate colpirono incessantemente la Sicilia e continuarono anche dopo lo sbarco pianificato di Capo Granitola, presso Mazara, nel 827.

La comparsa nelle acque del Mediterraneo delle veloci navi musulmane ripropose, questa volta  con una forte accelerazione, un fenomeno urbanistico e sociale che aveva già colpito durante le terribili devastazioni dei Vandali del V secolo:  l’assottigliamento della popolazione residente nei ricchi centri abitati della costa con la conseguente riduzione urbanizzata dell’area antica. Come lo fu la barbara vastitas (440-475), così l’attività corsara dei musulmani innescò in Sicilia una serie di modifiche di vasta portata sia per la durata temporale che per la globalità della popolazione e del territorio coinvolti, quali: una drastica flessione delle attività nautiche,  un ridimensionamento e, in taluni casi, la scomparsa di porti e centri costieri cristiani, un impoverimento diffuso della popolazione residente nelle città costiere e la decadenza del sistema viario romano con lo spostamento verso l’entroterra delle vie di comunicazione. Di conseguenza si darà impulso alla nascita o al ripopolamento dei siti di altura, adatti alla difesa e, soprattutto, luoghi dove poter vivere la vita di tutti i giorni in sicurezza. Alle rappresaglie, alle devastazioni delle guerre o dei semplici movimenti degli eserciti, alle improvvise incursioni piratesche nei centri rivieraschi, al timore e alla paura sia spirituale che fisica, la popolazione reagì emigrando verso luoghi più sicuri. Le zone litoranee del Mar Tirreno si spopolarono e, in taluni casi, caddero nell'abbandono completo. Si assistette così ad un lento e graduale processo di trasferimento dell' habitat, una salita verso i vicini luoghi collinari.

Dagli scavi archeologici abbiamo dei riscontri di questo assottigliamento urbano nonché depauperamento residenziale delle fasce costiere, floride durante l’impero di Roma, mentre ci tramandano i segni della loro decadenza tra il V  e l’VIII secolo.  Come la città di Alesa nella cui agorà, già abbandonata, sono state ritrovate delle sepolture di epoca bizantina.[12] Così nel foro di Taormina. Tindari non è più una fiorente città ma solo un borgo fortificato. Prima dello sbarco a capo Granitola, le flotte corsare saracene colpivano i centri della costa con razzie rapide, con il prelievo di gente quasi sempre giovane con cui alimentare il commercio degli schiavi e con l’imposizione di tributi e di riscatti, mentre dall’827 oltre alle incursioni provenienti dal mare, le gualdane saracene giungevano anche dalla terraferma. In questo periodo la Sicilia si presentava ai nuovi invasori irta di torri e fortezze,[13] di paesi potentemente fortificati, incastellati in cima a rupi scoscese e adatti alla difesa, collegati tra loro da un efficientissimo sistema di comunicazione ottica poggiante su torrette[14] sparse nel circondario: non a caso la conquista musulmana rispetto a quella bizantina, fu lenta e difficile, assumendo in alcuni casi carattere episodico e di scorreria.[15]

Dal susseguirsi temporale delle conquiste dei centri abitati possiamo notare che le direttrici d’avanzata dell’esercito arabo puntarono principalmente su due direzioni: una verso Nord, Palermo (conquistata nel 831) e l’altra verso Sud-Est, cioè verso Siracusa (878).  Da Palermo, sia per via terrestre che per via mare,  le armate musulmane assaltarono la cuspide nord-orientale dell’Isola, conquistando Tindari (835), Milazzo (843) e infine Messina (844). Le fonti arabe, successive alla conquista, registrano gli innumerevoli tentativi di conquista  effettuati contro i centri abitati insistenti nell’area della dorsale appenninica peloritana e nebroidea, sino a raggiungere la vasta regione pedemontana dell’Etna. Territori per di più montuosi, coperti da un fitto manto boscoso, che mal si adattavano alle qualità militari della temibile cavalleria saracena, nerbo delle armate musulmane e fautrice della veloce e vittoriosa espansione dell’Islam.  E non è un caso che proprio in questa vasta porzione di territorio siciliano, immediatamente dopo l’inizio dell’invasione, assurgono d’importanza nelle fonti diverse località, tra nuove e di antica fondazione, tra le quali tre in particolare mostrano opere difensive notevoli e difficili da espugnare. Per due di questi siti possediamo con certezza la loro ubicazione: Taormina sul versante ionico e Rèmata o Erymata identificata con l’odierna Rometta, sul versante tirrenico. Per la terza località, Demenna o Demona, «buona a difendersi e non ad offendere»[16]  possediamo diverse ipotesi sulla sua localizzazione: ultimamente l’attenzione degli studiosi punta fortemente su S. Marco d’Alunzio,[17] anche se su questa ci siano indizi[18] che portano ad escludere l’opulenta Aluntium romana, il «Castrum Sancti Marci»[19] rifugio fortificato di Ruggero d’Altavilla.

Ancora oggi chi pone mano allo studio dell’ultima parte della conquista musulmana della Sicilia sarà assillato da interrogativi ai quali  gli sarà difficile rispondere, tra questi uno in particolar modo ha costretto gli storici a rispondere in modo incerto:[20]  è possibile che nei pressi di Messina e di Milazzo, espugnati rispettivamente nel 843 e 844, e quindi sotto il controllo politico e militare dell’emirato di Palermo, potesse esistere, sino al 902 un luogo come Rometta ancora non sottomesso?

Per Taormina l’interrogativo è meno proponibile: Catania e la fortezza di Aci saranno ridotte all’obbedienza islamica solo nel 900. La risposta ci viene data direttamente dalle notizie dei numerosi tentativi di conquista messi in atto dall’esercito musulmano e raccolti dall’Amari:

 

L’emiro di Sicilia, Khafagia,  dopo l’ennesimo tentativo di espugnare Taormina primo di rebì dell’anno 255 (869) movea sopra Tiracia  (forse   Randazzo)…. Non si sa ch’ei la espugnasse.[21]

Il duecento sessantanove (20 luglio a 9 luglio 883) Mohammed affligea con saccheggi, cattività, uccisioni i contadi di Rametta e Catania, ma tornava in Palermo tra il giugno e il luglio dell’ottocento ottantatrè.[22]

[…] Sewàda-ibn-Mohammed, tornato in Palermo, movea l’anno dugento settantasei (5 maggio 889 a 23 aprile 890) contro Taormina, e invano l’assediava.[23]

Nell’anno 900 , il governatore Abd-Allah uscito da Palermo cavalcò il contado di Taormina; distrusse le vigne; molestò il presidio con avvisaglie; e come l’inverno s’inoltrava, sperando ridurre più agevolmente Catania, città in pianura, la assediò; poi nella primavera successiva (901) apparecchiò più poderosi armamenti […] con l’esercito andò a porre il campo a Demona; pianto i mangani contrò le mura; le battè per diciassette giorni; ma risaputo d’un grande sforzo di genti che i Bizantini adunavano in Calabria, lasciò stare il presidio di Demona […]  e volò con l’esercito a Messina[24]

 

Da ciò possiamo ben argomentare che gli Arabi, sino al 902, non esercitavano il pieno e costante controllo militare  sulla totalità del territorio della Sicilia nord-orientale ma controllavano saldamente  solo le aree costiere, compresi i centri abitati come Messina, Milazzo e Tindari e una vasta fascia dell’entroterra, come ad esempio la ricca e fertile Piana di Milazzo. Nella parte montuosa e collinare, invece, dominata dalle città, forti nella difesa, quali Rometta, Demenna, Taormina e Aci, territori ancora non domati, i Musulmani, sino al 900, potevano addentrarsi solo in forze e ben armati, portare guasti sin sotto le mura delle città-fortezze cristiane e poi, nell’impossibilità di espugnarle, scorazzare per il contado limitrofo mettendolo a ferro e fuoco. Quindi, non ci troveremo molto lontani dalla realtà nel pensare alle fortezze cristiane della Val Demone come ad una sorta di enclave, cioè a dei territori limitati, arroccati sulle cime più alte ed inaccessibili dei contrafforti  dei Nebrodi, protetti e circondati oltre che da un ambiente asperrimo anche dall’enorme foresta, che come un immenso manto verde di vegetazione perenne ed inestricabile, si estendeva senza soluzione di continuità, dai Monti Nettuni (oggi monti Peloritani) sino alle Madonie.

Foresta Linaria, Magna Foresta, alcuni dei nomi delle grandi aree boschive[25] della dorsale appenninica peloritana e nebroidea dove, gli indomiti abitanti del Val Demone, riottosi ad accettare la presenza islamica vissero liberi nelle grotte o nei pagliai[26]  raggruppati talvolta in piccole comunità nei punti più inaccessibili, traendo tutto quello di cui abbisognavano dalla foresta, luogo di immense risorse spontanee: vi si poteva cacciare, legnare e fare carbone nonché pascolare gli armenti e ricavare materiale da costruzione per l’edilizia. Non possiamo dimenticare che in tutta la regione era forte la presenza dei religiosi, soprattutto monaci, che nei cenobi, eremi, laure, mantenevano i rapporti con il territorio circostante e spronavano alla resistenza contro l’invasore islamico. Qui citiamo la presenza di S. Elia di Castrogiovanni, detto il Giovane, a Taormina nel 902 ad esortare gli abitanti alla difesa della città,[27] mentre nel 962-963 un’intera famiglia di monaci, passati poi agli onori degli altari, S. Cristoforo di Collesano, la moglie Calì e i due figli, S. Saba e S. Macario,[28] soggiornarono per un breve periodo a Rometta nell’attesa di continuare il viaggio verso la libera Calabria. Quindi per Messina si può ipotizzare che sino al 902, essendo vicina alle coste calabresi, controllate dalla flotta bizantina, non fosse tenuta in considerazione strategica e, quindi dopo essere stata conquistata, ridotta a città tributaria, ma sempre alla mercé degli eserciti arabi che vi potevano entrare in qualsiasi momento. Una sorta di status di “città aperta” oltre che di frontiera. Così lo fu nell’immediatezza del 902, quando l’energico Ibraim a capo di un poderoso esercito giunse a Messina e da qui attraversò lo Stretto e dopo aver conquistato Reggio con un massacro indicibile ritornò su Messina dove, era appena giunta una squadra navale bizantina: «[…] sapendo arrivata da Costantinopoli a Messina un’armata greca: e la coglie nel porto; le prende trenta navi; fa diroccar le mura della città, per castigo o cautela» .[29]

Dunque nel 900, stando alle fonti, abbiamo un vasto territorio della Sicilia nord-orientale con grossi e piccoli centri abitati, muniti di opere difensive, non ancora occupati dagli eserciti musulmani e fedeli all’Impero romano d’Oriente.  E su queste città-fortezze si abbatté la furia devastatrice del terribile Ibraim che a capo di un numeroso esercito intraprese una vasta controffensiva nei confronti delle ultime città libere. Catania (il suo nome verrà arabizzato in Madi-nat al-fi-l, la città dell’elefante) cadde nel 900 e nel 902 Taormina fu conquistata con le armi. Rometta e Demenna assieme alle altre fortezze si arresero e le loro mura diroccate. Dopo la presa di Taormina e la resa di tutti i centri fortificati della resistenza siciliana del Val Demone si può affermare  che fu portata a compimento la conquista totale dell’Isola da parte dei Musulmani e sembra terminare lo scontro sanguinoso tra l’Islam e Bisanzio per il possesso della Sicilia.[30]

Ma nel 962-965 le fonti[31] ritornano sugli stessi luoghi a descriverci degli eventi che hanno come protagoniste nuovamente i centri di Demenna, Taormina e Rometta.  Quindi ad una prima lettura è da supporre che l’area montana della cuspide nord-orientale non sia stata del tutto ridotta all’obbedienza da parte dell’emirato di Sicilia. Invece, è immaginabile che questi centri, dopo il 902, siano diventati, negli anni successivi,  tributari dei Musulmani. E a questa conclusione sembra portarci la testimonianza successiva di  Goffredo Malaterra[32] quando a proposito dello sbarco dei Normanni in Sicilia nel 1060, afferma: «Hic Christiani, in valle Deminae manentes, sub Sarracenis tributarii erant». Da un’altra fonte, inclusa nel Sirat Giawdhar, cogliamo un’ulteriore notizia in tal senso:  si tratta  di una lettera inviata dal quarto Califfo Fatimida dell’Ifriqiya, al-Muizz, all’emiro siciliano, Ahmad ibn al-Hasan dove, al Muizz prega Iddio «affinché le genti di Ratmah e Tabarmin, di cui ci servivamo per il taglio del legno, ribellatesi possano subire presto un castigo esemplare».[33] Con molta probabilità agli abitanti dei centri cristiani del Val Demone che si erano arresi, e questo lo sarà ad esempio per Rometta e Demenna, fu concesso di pagare i tributi: la giziah (imposta personale o testatico)  e la kharag  (fondiaria),  corrisposti anche in natura. Con i tributi le popolazioni cristiane potevano conservare la libertà e i beni con il diritto di avere propri giudici e proprie leggi. Per Taormina è probabile che dopo lo sterminio della sua popolazione nel 902 gli stessi arabi permisero un suo ripopolamento con genti di fede cristiana che con il passar del tempo (dal 902 al 962)  divennero la fazione maggioritaria rispetto ad un’eventuale presenza araba. La notizia riportata nel documento di al-Muizz sul taglio del legname ci conferma ulteriormente  lo sfruttamento su scala industriale delle foreste siciliane che, a partire dagli Arabi, verrà condotto indistintamente sino al XIX sec. comportando la scomparsa di intere aree boschive. Uno storico contemporaneo, Maurice  Lombard,  ha ipotizzato che dietro l’invasione musulmana ci sia stato il preciso obiettivo di impadronirsi delle ingenti risorse di legname della Sicilia, materia prima per gli arsenali navali dell’Islam[34].

Quindi si parla di rivolta, forse in conseguenza di un eccessivo carico dei tributi da versare all’erario musulmano dell’emirato di Palermo che spinse le popolazioni di alcune città siciliane a prendere le armi e sperare in un aiuto dell’Impero bizantino. Gli aiuti arrivarono sul finire del 964: troppo in ritardo per Taormina che era stata costretta alla resa nel dicembre di due anni prima. Un numeroso corpo di spedizione bizantino sbarcò sulle spiagge di Messina e senza indugiare attaccò l’esercito musulmano all’assedio di Rometta.  La battaglia che ne seguì fu cruenta e sino alla fine nessuna delle due parti riusciva a prevalere sull’altra fino a quando il comandante greco rimase ucciso nello scontro. Fu il segnale della disfatta imperiale: oltre diecimila soldati greci rimasero sul campo di battaglia, mentre molti furono presi prigionieri. La fortezza peloritana resistette altri sette mesi subendo un totale e duro assedio: alla fine uscirono dalla roccaforte le donne e i bambini superstiti che vennero accolti nel campo saraceno, mentre gli ultimi uomini si rinserrarono dentro la città assediata in attesa dell’ultimo assalto dei saraceni che avvenne la mattina del cinque maggio del 965. La città ribelle, ultimo focolaio di resistenza, fu saccheggiata e data alle fiamme.

Con la caduta di Erymata finiva di fatto la rivendicazione ufficiale da parte di Bisanzio di  intervenire militarmente in Sicilia con il precipuo scopo di soccorrere le città dove ancora esistevano popolazioni che riconoscevano l’autorità dell’imperatore bizantino.

Ma sulle alture delle montagne e negli anfratti rocciosi, all’ombra della “Grande Foresta” e lontano dalle grandi vie interne di attraversamento dei monti Nebrodi, intere comunità di stirpe siceliota e latina, sopravvissero senza sottostare all’invasore straniero, libere ed autonome, dove le gualdane musulmane non rischiavano di inoltrarsi perché quei luoghi erano abitati dai Demoni Cristiani.


                                                                                                                                                                                      Piero Gazzara

                                                                                                                                                                                                                                                              storico

    NOTE:                                                                                                                                                                               


[1] Per il 902 si schierano: F. Cardini , Europa e Islam, p.34; P. Orsi, Sicilia Bizantina, p. 99; G. Romano, Le dominazioni barbariche in Italia (395-1024), Milano 1910, p.583; A. Ahmad, Storia della Sicilia islamica, Catania 1977, p.57; G. Arnaldi, L’Italia e i suoi invasori, Bari 2004, p.63; C. Azzarà, Le invasioni barbariche, Bologna 1999, p.133; J. Huré, Storia della Sicilia, Catania 1997, p.62;  H. Grégoire, Le dinastie amoriana e macedone, 842 – 1025, in «Cambridge University Press, Storia del mondo Medievale, l’Impero Bizantino» (1978), vol. III, cap. V, p.165. G.Tabacco – G.G.Merlo, Medioevo, Milano 2004, vol.7, p.112.

[2] Per il 965 propendono: F. Maurici, Breve storia degli Arabi in Sicilia, Palermo 2006, p.53; S. Correnti, Storia di Sicilia, Milano 1972, p. 81; R. Santoro, I Bizantini, Palermo 2008, p.31; L. Gatto, Sicilia medievale, Roma 1992, p.18; R. Papa Algozino, La Sicilia araba, Catania 1996, p.43; M. Canard, Bisanzio e il mondo musulmano alla metà dell’XI secolo, in «Cambridge University Press, Storia del mondo Medievale, L’espansione islamica e la nascita dell’Europa feudale» (1979), vol. II, cap. IX, p.307.

[3] vd. M. I. Finley, Storia della Sicilia antica, p. 215-216; J. J. Norwich, I Normanni nel Sud, p. 65; R.S. Lopez, Nascita dell’Europa, Milano 2004, p. 446; H. Pirenne, Maometto e Carlomagno, Roma 1993, p.143.

[4] Nel 964 la spedizione militare di Niceforo Foca e nel 1040 quella di Giorgio Maniace.

[5]  Agnellus, Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, XXXIV, 111, ed. O. Holder-Egger, in « Monumenta Germaniae Historica - Scriptores Rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX», Hannoverae 1878,  pp. 350-352.

[6] Procopius, De Bello Gothico, Lib. III, cap.15.

[7] Res Gestae Divi Augusti, XXV, 1, in T. Mommsen , «Res Gestae Divi Augusti», Berlino, 1865, p.68. cf. A. Tarwacka, Romans and Pirates. Legal Perspective, Warszawa, 2009, IV, 2.1.

[8] Iustinianus, Novellae  in «corpus Iuris Civilis», (di Mommsen-Kruger-Schoell) ed. Schoell e Kroll, Berlino 1928 e successive edizioni, vol. III -  cf. R. Rizzo, Papa Gregorio Magno e la nobiltà in Sicilia, Palermo 2008, p.120.

[9] P. Diacono, Historia Langobardorum V, 13, in« M GH., S. R. L.I.», p.150.

[10] Liber Pontificalis 1, l. XXVIII, c. 137; vedi anche E.  KislingerRegionalgeschichte als Quellenproblem: die Chronik von Monembasia und das sizilianische Demenna : eine historisch-topographische Studie, Vienna 2001, p. 120.

[11] M. Amari, Storia dei Musulmani  di  Sicilia, Vol. 1, Firenze 1854, p.99.

[12] A. Burgio, Il territorio di Alesa: prime considerazioni sul popolamento di età repubblicana e alto imperiale, in «La Sicilia romana tra Repubblica e alto impero, Atti del Convegno»  (2006), Caltanissetta, p.60.

[13] L. Santagati, Storia dei Bizantini di Sicilia, Caltanissetta 2012, p. 229.

[14] Sistema ancora oggi leggibile nel territorio della fortezza di Erymata (Rometta) e nella Valle del Platani con un sistema poggiante su torrette, alcune delle quali utilizzate in epoche successive, vd. S. Modeo e A. Cutaia, Il sistema bizantino di difesa e di trasmissione dei messaggi ottici nella Valle del Platani, in «La Sicilia bizantina, storia, città e territorio»,(2010). – P. Gazzara, Archivio Storico Romettese, Trento 2005, Vol. 2, p. 92.

[15] Sull’incastellamento della Sicilia, una questione ancora tutta aperta, vd. H. Bresc, Terre e castelli: le fortificazioni nella Sicilia araba e normanna, in R. Comba – A. Settia,  «Castelli, Storia e archeologia», (1984), Torino; Id., L’incastellamento in Sicilia, in M. D’Onofrio,«I Normanni popolo d’Europa 1030-1200», catalogo della Mostra, Venezia, 1994; ed ancora F. Maurici, L’insediamento medievale in Sicilia: problemi e prospettive di ricerca, in «Archeologia Medievale», (1995),  XXII, pp.487-500. Ed inoltre: durante il Convegno di Studi sul tema Chiesa bizantina di S.Maria dei Cerei o San Salvatore di Rometta, tenutosi nel maggio del 2011in Rometta, il relatore ha evidenziato i tre livelli insediativi che portarono alla fondazione di Rémata basata sulla rilevazione eseguite da P. Orsi e da G. Scibona. Rilevazioni sui diversi ipogei esistenti nel territorio  e, recentemente, esplorate ed analizzate dallo stesso dove, ha individuato nel complesso rupestre delle contrade di Sotto S.Giovanni  e di Sottocastello, comprensive di due chiese scavate nella roccia, il primo insediamento riferibile al V sec. d.C. adoperato come rifugio dalla popolazione sfollata dei centri costieri limitrofi; al secondo insediamento si deve la costruzione del santuario rupestre, sotto il titolo di  S. Giovanni, presso il Convento dei cappuccini, realizzato sulla sommità del centro abitato: per gli affreschi e per la tipologia strutturale il santuario si deve collocare tra la prima metà del VI sec. e non oltre la prima metà del VII sec. ad opera degli stessi abitanti delle grotte sottostanti; mentre alla fase di stabilizzazione e, quindi all’organizzazione urbanistica del centro abitato fortificato coincidente con gli anni della resistenza (VII – IX sec.), appartiene la solida Chiesa Bizantina di Gesù e Maria o del S. Salvatore (Atti del Convegno in fase di pubblicazione).

[16] M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, Firenze 1858, Vol.II , p. 70.

[17] Relazione svolta da E. Kislinger in occasione del Convegno di studi Presenze bizantine in Valdemone tenutosi presso il Monastero di San Filippo di Fragalà nei giorni 3 e 4 agosto 2002, organizzato dal Centro Studi Filippo di Demenna: lo studioso austriaco ha illustrato il suo percorso di studi che lo hanno portato ad avallare l’ipotesi di San Marco D’Aluntio. Tesi poggiante anche su alcuni documenti scoperti alla Geniza del Cairo, una sorta di deposito-archivio di documenti delle sinagoghe. In questa sede sono state studiate dal Kislinger  alcune lettere commerciali provenienti da Demenna, e in particolare da un gruppo di mercanti del Val Demone che intrattenevano rapporti commerciali con l'Egitto.

[18] L. Santagati, cit., p.96.

[19] G.  Malaterrae, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae Comitis et Roberti Guiscardi Ducis fratris eius in «Rerum Italicarum Scriptores»,   (1928) ed. E. Pontieri, Lib. II, cap. XVII, p.34.

[20] Solo per citarne alcuni: E. Kislinger, Milazzo – Stelai (880 D.C.): una battaglia navale cambia luogo in «Archivio Storico Messinese» (1995), Vol.69, p.9.; L. Catalioto, Il Medioevo: economia, politica e società, in «Messina. Storia, cultura, economia» (2007), p. 71.

[21] M. Amari, cit. Vol. 1, p.350.

[22] Ibid., p.423.

[23] Ibid., p.428.

[24]Id., cit. Vol.II , pp 70-71.

[25] H. Bresc, Un monde méditerranéen. Economie et société en Sicilie. 1300-1450, Roma 1986.

[26] Data l’eccezionalità della condizione degli insediamenti è facile supporre che la tipologia dei ricoveri abitativi fosse costituita da abitazioni scavate negli affranti rocciosi o capanne pagliai: strutture temporanee in legno con coperture in canne o di paglia. vd. S.  Pirrotta, Il Monastero di san Filippo di Fragalà, secoli XI-XV, Palermo 2008, p.173.

[27] C. Martorana, Seguito della risposta al sac. Nicolò Buscemi in «Giornale di scienze, lettere e arti per la Sicilia», Palermo 1834, tomo XLV, Anno XII, p.137.

[28] I. Cozza-Luzi, Historia et laudes SS. Sabae et Macarii iuniorum e Sicilia auctore Oreste Patriarca Hierosolymitano  in «Codice n. 2072 della Biblioteca Vaticana», Roma 1983; Id., Vita Macarii in Analecta Bollandiana, XII (1983), pp.317-318.

[29] M. Amari, cit., Vol. 1, p.72.

[30]Ibid.,  p.85 e segg..

[31] Ibn ‘Al Atir (1160-1233), ‘An Nuwayri (1278-1332), Muhammad ‘Ibn ‘Haldun (1332-?) Yaqut (1178-?), Codices Cryptenses (X sec.d.C.), Codice Vaticano 1912 (X sec. d.C.), Codice Parigino 920 (sec. X-XI sec. d.C.) e Cronica di Cambridge (XI-XII sec. d.C.) in P. Gazzara, cit. pp.23-44.

[32] G.  Malaterrae, cit.,cap. II, c.XIV, p. 55.

[33] U.  Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, 1975, pp.29-30.

[34] M.Lombard, Arsenaux et bois de marine dans la Méditarranée  musulmane (VII-XI siècles), in « Le navire et l’économie dans la Méditarranée  musulmane. Travaux du II° Colloque d’histoire marittime», (1958),  Paris,  pp. 54-106.

 


 

 

 

 

 

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