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Per il nuovo video dei Malanova presentato a Rometta nella Sala Consiliare*.

il nuovo video dei Malanova

 

    Malanova! «Malanova un còppu mi facìsti avìri» oppure «Malanova mi facìsti scantàri». Nella parlata locale la parola composta da “mala” più “nova” veniva utilizzata come espressione di meraviglia a seguito di uno scherzo inaspettato, goliardico, quasi che, chi la pronunciava, volesse irridere l’artefice della bischerata. Ma all’origine “malanova” era unito sempre a «… cchi mi ai» o «malanova mi ai» e suonava come una maledizione scagliata contro una persona e la sua discendenza ai quali si augurava tutto il male di questo mondo, una sorta di anatema. “Malanova” spesso lo troviamo in alternanza con “malantisa”. Mai quanto il variegato e complesso apparato linguistico siciliano presenta termini del parlato ereditati da una visione pessimistica e tragica di una storia fatta di dominazioni straniere, vessazioni e angherie. La “mala” sulla bocca degli isolani usciva con cadenza quotidiana ad indicare la durezza della vita e la cecità della provvidenza divina alla quale, ad esempio, i Malavoglia, di verghiana memoria, si affidavano per un domani migliore. Io, invece, con i "Malanova", vi parlerò di riscossa, di resistenza e di libertà che il tempo ha impresso nella pietra, nella terra e nell’aria che ancora si respira tra i vicoli di questo centro abitato arroccato: Rometta.

 

Villa Castello

 

     Oggi, il gruppo musicale “Malanova", presenta il suo nuovo “canto” All'aria, con un video “girato” interamente in due luoghi di Rometta a noi tanto cari e pieni d’incanto: villa castello e le cateratte d’acqua di silimò, fonte peloritana del torrente Bagheria. In questi luoghi, ogni pietra è un racconto, una storia. Io ho avuto la fortuna di ascoltare i fatti, i “cunti”, i racconti dei nostri anziani che hanno vissuto in questa terra quando la memoria si tramandava da padre in figlio, da generazione a generazione senza il supporto della tecnologia contemporanea. Solo la voce e la memoria raccontavano di una terra “dura, fragile”, dove donne e uomini vivevano in una terra “incantata”, animata da miti, santi, saracini, grano e truvature, tesori favolosi nascosti e protetti da incantesimi. E a Rometta, in cima ad una pietra, sulla sommità di una collina dall’aspetto di una montagna inaccessibile, la grande storia è passata con tutto il suo peso ed ha lasciato i segni di questo passaggio: una pietra, una grotta, un muro diroccato, una chiesa, un sepolcro, una reliquia, una pergamena. E' come se sfogliassimo un libro impresso sulla pietra. Sta a noi cogliere il racconto del tempo passato e comprendere il nostro presente ma anche per dare un senso all’oggi.

 

Le sorgenti di Silimò

    E un senso i nostri anziani, i  nostri nonni lo avevano, credevano ed erano orgogliosi di un fatto: chi abitava su questa rupe scoscesa e difficile si sentiva libero. Rometta, la loro città, non aveva mai avuto padroni feudali o signorotti di alcuna natura dicevano. Questo racconto io l’ho colto sulle labbra di romettesi, e mentre lo  dicevano potevo cogliere sul loro viso rugoso una fierezza d’altri tempi mentre i loro occhi si inumidivano d’orgoglio. E sebbene dovessero strappare ad una terra prodiga ma aspra i frutti per il loro sostentamento quotidiano spezzandosi la schiena lavorando ogni santo giorno, loro si sentivano forti e degni di abitare in questa roccaforte inespugnabile e libera. Questo forte e radicato culto della libertà i nostri antenati lo avevano ereditato da alcuni eventi o fatti storici realmente accaduti. Uno di questi lo abbiamo ricordato ieri, 5 maggio del 965, quando l’intera popolazione della bizantina Erìmata (gr. Erumata) aveva scelto la resistenza ad oltranza contro l’invasore di turno, i Musulmani d’Africa, i cosiddetti Saracini. Si opposero con le armi pur sapendo di dover fronteggiare un esercito ostile e di gran lunga più numeroso. Una lotta impari, senza speranza. Ma loro lo fecero lo stesso, per difendere la propria terra in cui erano nati, cresciuti, per non abbandonare la propria casa, i propri averi. E la loro decisione di resistere la pagarono con la vita. Ma non si piegarono pur di credere in un futuro di libertà.

 

La sala consiliare durante gli intereventi dei relatori

 

     E questo spirito, questo desiderio di libertà si è rafforzato nei secoli, soprattutto durante la guerra angioina-aragonese, quando all’indomani dei Vespri Siciliani (1282) la popolazione romettese era salita sulle mura per difendere la propria città contro gli assalti dei mercenari francesi al soldo degli Angiò. E mentre Milazzo e gli altri centri della Piana venivano conquistati nel nome di un vendicativo sovrano angioino, la città fortificata di Rametta, così si chiamava nel medioevo Rometta, combatté valorosamente e resistette sino all’arrivo dell’esercito siciliano-catalano guidato dal giovane e legittimo re di Sicilia, Federico III, detto l’aragonese ma oggi conosciuto anche con il titolo di “Grande”.  Fu lui che, il 13 ottobre del 1323, per ripagare la resistenza e la fedeltà dimostrata da Rometta, concesse un Diploma, (ancora oggi esistente presso l’archivio di Stato di Messina) con il quale sancì l'appartenenza al demanio regio di Rametta e del suo territorio. Dal latino: 

 

‹‹Federico per grazia di Dio Re di Sicilia con il presente Privilegio Vogliamo rendere noto a tutti, sia presenti che futuri, che Noi promettiamo che il Castello - Fortezza della terra di Rametta e la stessa terra, situati nel distretto della città di Messina, con tutti i diritti, le ragioni, i possedimenti e le sue pertinenze, e i nostri fedeli che abitano e dimorano in essa siano liberi (esenti) da Contea, Baronia e Feudo.. e a nessuno che possa esistere di qualsiasi grado, condizione, stato e dignità sarà concesso di donare in contea, baronia e feudo o in qualunque altro modo››.

       Quindi una vera e propria dichiarazione indelebile e risoluta di libertà e di autonomia seppur alle dipendenze della Corona, ma non alle angherie del regime feudale. Con questo atto ufficiale si fortificò sempre di più nelle giovani generazioni lo spirito identitario dominato da un forte desiderio di libertà. E un altro evento, accaduto nella prima metà del XVII secolo, cementificò l’orgoglio e la fierezza dell’animo degli abitanti.  Cosa successe? Il re Filippo IV di Spagna e III di Sicilia, era alla ricerca di denaro per finanziare le ingenti spese sostenute nelle numerose guerre intraprese contro la maggior parte degli Stati europei. Per questo era sempre alla ricerca di prestiti. Fu un nobile siciliano, Pietro Valdina (+ 1652), Marchese di Rocca (oggi Roccavaldina) e Barone di Mauroianni (oggi Valdina)  a concedere al proprio sovrano un’ingente somma di denaro in prestito, con la condizione che se entro la data, prestabilita nel contratto, la somma prestata non fosse stata restituita, il ricco Marchese poteva infeudare tra i propri possedimenti Rometta con tutto il suo territorio: questo voleva dire che gli abitanti di Rometta diventavano sudditi di un padrone feudale. Allo scadere del prestito, il sovrano spagnolo non pagò e come pattuito il marchese Pietro Valdina si ritenne padrone della città, sino ad allora demaniale, di Rometta. Apriti cielo! Appena il marchese con il suo seguito di ufficiali e soldati si avvicinò alla città per prendere possesso degli Uffici, tutto il popolo romettese che era stato tenuto all’oscuro del prestito al Re, chiuse le due porte ferrate, unico accesso al centro abitato e salì sulle mura. Alla fine il nobile Valdina non riuscì ad entrare anche perché i Romettesi erano pronti ad accoglierlo con le pietre se solo si fosse avvicinato alle mura della città.  Il Marchese non potendo entrare ritornò indietro con l’intento di chiedere l’intervento dell’esercito spagnolo per riportare la legalità. Come andò a finire? I Romettesi si autotassarono e raccolsero la somma data in prestito che estinsero direttamente versando il denaro nelle mani del Valdina  mentre con un’altra ingente somma pagarono al Re di Spagna il privilegio di rimanere città demaniale. Ecco da dove derivava questa insofferenza da parte dei romettesi a sottostare qualsiasi autorità che non fosse quella legittima della corona di Sicilia.

 

Il gruppo Malanova durante una loro esibizione a Rometta

 

       Ma non solo io ho raccolto questo elemento determinante della nostra identità locale. Nel 1881, un giovane del luogo, certo Giuseppe Mento Visalli, scrisse una breve storia di Rometta e nelle righe del suo manoscritto annotava: ‹‹[…]  che vili ed o schiavi non furono i nostri antenati […]››. Ed ancora. Nel 1954, in tempi recenti, Antonino Barbaro, arciprete di Rometta e canonico di Messina nonché segretario personale dell’Arcivescovo Paino, in una poesia dedicata a San Leone così scrisse:

[…] di libertà l’anelito più fiero

fur sigla di Rometta.

 Né duchi né vassalli ivi allignarono.

E quando i tempi nuovi alla riscossa

chiamar le genti, esultò nella fossa

la polvere degli avi.   

        Avete scelto due luoghi per il vostro video, due luoghi simbolo per la loro bellezza ma anche perché infondono un senso di purezza, giunta sino a noi quasi miracolosamente, ma qui, in questa terra antica, ogni angolo o “pietra è un racconto, ogni racconto è un canto, ogni canto è dolore”….. e credo che qui, come in altri posti di Sicilia si possa respirare a pieni polmoni l’essenza della vita oltre che il fremito di un alito di vento che parla di libertà, di riscossa e di speranza. Ed è per questo che tutte le testimonianze, materiali ed immateriali, ciò che noi definiamo Beni Culturali, vanno conservate, tutelate e valorizzate. Valorizzati e fruibili con eventi, con le visite, con la poesia, con la musica.

* Parte del discorso tenuto da Piero Gazzara in occasione della Presentazione del Video dei Malanova del 6 maggio 2018 presso la Sala Consiliare del Comune di Rometta.

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